Pochi giorni fa Thierry Fremaux è stato protagonista di un incontro molto atteso organizzato dalla Festa del Cinema di Roma, in cui ha avuto modo di dire la sua sulle recenti novità riguardo il Festival di Cannes, di cui è delegato generale. In particolare, ha spiegato meglio le ragioni dietro la decisione nell’edizione di quest’anno di bandire dal festival i film che non prevedevano la distribuzione in sala. Ha parlato quindi della faccenda cercando di fare un quadro complessivo della situazione ma senza fornire possibili soluzioni e senza schierarsi nettamente da una parte o dall’altra. Il problema è: cosa fare con i film che non escono in sala? Come considerarli? Può esserci un cinema che non contempla il passaggio in sala, luogo con cui fino ad oggi si è rappresentato il cinema stesso nel nostro immaginario collettivo? Potremmo anche chiamarla la “questione” Netflix, diventata sempre più centrale da quando i suoi film vincono festival, sono realizzati da maestri della settima arte e gli esercenti avrebbero tutto l’interesse del mondo a proiettarli nei propri cinema, a patto che non siano disponibili anche online.
Se volete scoprire come Fremaux si para il culo scaricando la colpa della retorica passatista di Cannes sugli esercenti francesi, riempiendosi di lodi e specificando che lui sa sempre tutto e agisce solo per il bene dei film, del cinema e della Pace del Mondo, ma soprattutto se volete vedere quanto rosica per il momento d’oro che sta vivendo la Mostra del cinema di Venezia, leggetevi questo impeccabile resoconto di Badtaste.it.
Noi invece parleremo di Netflix in senso più ampio, per metterne in chiaro una volte per tutte degli aspetti della sua natura che molti potrebbero aver frainteso guardando il suo modo di muoversi nell’industria. In particolare, partiremo da un equivoco apparentemente innocuo, ma anche molto ingenuo e che diventa preoccupante nel momento in cui a sostenerlo è una figura di spicco come Fremaux, che proprio a Roma a un certo punto ha detto:
“Il problema è un altro io credo, quello della creazione mondiale. Perché Scorsese sceglie Netflix? Perché Cuaron sceglie Netflix? Perché il processo di produzione non è più quello di una volta, perché oggi gli studios non accettano di produrre un film in scope e bianco e nero come quello di Cuaron. Chi lavora a Netflix sono veri cinefili e ovviamente sono anche ricchi.”
Tutto giusto, un’analisi lucida e condivisibile almeno finché non dice: “Chi lavora a Netflix sono veri cinefili e ovviamente sono anche ricchi.”
Diamola buona a “sono anche ricchi“, che è abbastanza vero, sebbene recentemente sia venuto fuori che i debiti di Netflix con le banche sono cresciuti ulteriormente (altri 2 miliardi) e hanno cominciato a far alzare qualche sopracciglio in quel di Wall Street. Netflix dice che è tutto “parte del piano” – e non è da pazzi credergli – ma in ogni caso non è questo che ci interessa oggi.
Quello che faccio fatica a mandare giù è l’affermazione “chi lavora a Netflix sono veri cinefili“. Sia chiaro: non lo so se quelli di Netflix sono davvero cinefili o meno, magari lo sono, magari no. Chissenefrega. Il punto è che se anche lo fossero non vuol dire necessariamente che agirebbero di conseguenza. Dalle parole di Fremaux si deduce che secondo lui le scelte produttive del colosso di Los Gatos siano mosse dalla cinefilia più che (detto banalmente) dal profitto, a differenza delle altre major classiche che resterebbero quelle senza cuore che pensano solo a fare soldi.
Ora, voglio credere che Fremaux non sia tanto ingenuo da credere davvero a una cazzata del genere così come ve l’ho esposto io, e che la battuta sulla cinefilia fosse solo una frase di circostanza, un modo gentile e colorato per dire che Netflix pensa sicuramente ai soldi, ma ci tiene anche al cinema e agli appassionati e vuole fare le cose per bene, a differenza degli altri. Tuttavia rimane anche questo un discorso troppo affrettato, banale e sostanzialmente sbagliato, al punto che mi sento legittimato a propinarvi il seguente pippone megagalattico. Enjoy.

Ted Sarandos, FBI.
Partiamo dal fatto che dire “chi lavora a Netflix sono i veri cinefili” (sottinteso: “e quindi sono più buoni della Disney”) è un’affermazione fuorviante perché può far pensare alla fine dell’era dell’accumulazione capitalistica eterna e indiscriminata e all’inizio di una nuova era in cui l’amore per il cinema, i film intimisti in bianco e nero realizzati in nome dell’Arte e dei Massimi Sistemi per il Bene del Mondo, siano la principale spinta dell’umanità verso il futuro. Ma signora mia, neanche Marx era così ottimista.
Ok, forse ho esagerato un pochino all’estremo opposto, però ci tenevo a sottolineare l’assurdità implicita in una tale affermazione. La rivoluzione di Netflix, per quanto significativa, non è di questa portata.
Il motivo per cui Martin Scorsese e Alfonso Cuarón, per dirne un paio, vanno da Netflix per fare il loro prossimo film (come The Irishman) o per vendergliene uno da distribuire perché già fatto e finito (come Roma), è perché Netflix offre loro una più ampia libertà creativa (anche a budget elevati), perché a sua volta Netflix vuole titoli forti a livello internazionale col proprio marchio sopra. Ma paradossalmente, in un certo senso, gliene frega pure meno (se mai fosse possibile) della riuscita del film, della sua fattura, della sua qualità ecc. ecc. Ben vengano i capolavori*, per carità, ma l’obbiettivo è un altro: l’obbiettivo è arricchire il più possibile la propria library con prodotti di tutti i tipi, compresi quelli di grosso richiamo cinefilo che diano credibilità all’azienda e gli permettano di fidelizzare i propri abbonati e averne sempre di più da qui a 100 anni (sopravvivenza del pianeta e della specie umana permettendo). Tutto questo in previsione anche della perdita dei titoli Disney e Warner (di certo non pochi e non “piccoli”) che finiranno nei rispettivi servizi streaming in arrivo nel 2019.
Insomma, la lungimiranza di Netflix sta nella consapevolezza che ha sempre avuto di dover prima o poi fare i conti con gli effetti della sua stessa rivoluzione, ovvero tutto il resto dell’industria dell’intrattenimento audiovisivo che arriva a farle la guerra sul territorio da lui stesso creato (o comunque dominato finora): lo streaming online legale.
Per quanto riguarda la maggiore libertà creativa offerta agli autori, questa è dovuta alla possibilità che Netflix ha di non dipendere dagli incassi dei film al botteghino e quindi da tutte le relative regole scritte o non scritte che invece attanagliano (spesso più per pigrizia che per altro) le produzioni dei film di medio-grosso budget delle major classiche fino ad incidere significativamente sulla loro politica editoriale. Ma Netflix non è neanche contro la distribuzione in sala, semplicemente non gli interessa perché punta a guadagnare (e sa di poterlo fare bene) tramite altre strade, cioè principalmente gli abbonamenti al suo servizio streaming. Poi, certo, già quest’anno sarà costretta a concedere una scappatina in sala ad alcuni dei suoi film (oltre a Cuaron e Scorsese ci sono anche i fratelli Coen con quel capolavoro di The Ballad of Buster Scruggs visto a Venezia) per vari motivi: 1) per permettere ai film di partecipare agli Oscar, 2) per far ancora più contenti gli autori (loro sì, cinefili) dei film in questione + quelli che a loro volta saranno ulteriormente invogliati a lavorare per Netflix e 3) per tentare di instaurare un dialogo con gli esercenti, che in tutta questa matassa restano legittimamente ancora quelli più a rischio e più incazzati di tutti. In futuro credo si troverà un punto di incontro ancora più equilibrato tra streaming e sala cinematografica, ma sulla questione mi fermo qui perché è un argomento molto più ampio – e per certi versi anche molto più intrigante – che necessita un pezzo tutto per sé.
Insomma, in ambito televisivo e cinematografico, Netflix si differenzia solo per il suo modus operandi che ha rivoluzionato il modo di fruizione del prodotto audiovisivo in una maniera talmente drastica e veloce da mandare in crisi (come storicamente succede in questi casi) una bella fetta della società che fatica a stare al passo. Non è poco, anzi. Ma è sempre una rivoluzione formale e non sostanziale.
Quindi, ragazzi, lo so che è banale dirlo e siete già tutti pronti a resuscitare Capitan Ovvio, ma il fine ultimo di Netflix non si sposta di un millimetro da quello della Disney, della Warner, di Amazon, di Google, di Apple, della Fiat, della Telecom, dell’Eurospin, del salumiere sotto casa o dal nostro: “money, money, money“, citazione facile (e ho banalizzato di proposito, non mettetevi a fare i moralisti, vi prego).
Poi certo, io sono contentissimo che Scorsese abbia avuto 150 milioni di dollari per girare un film di gangster che non contiene enormi draghi sputafuoco in motion capture, ma non illudiamoci che il mondo oggi sia un posto migliore di ieri grazie a Netflix.

Va là, che roba. Persino il backstage è stato girato in bianco e nero. Che artisti.
Un ringraziamento speciale a Thierriy Fremaux, delegato generale del Festival di Cannes, per avermi fornito La Scusa per scrivere questo pezzo lunghissimo. Se vi è piaciuto, pagatemi i prossimi due anni di abbonamento a Netflix.
*Date un’occhiata a quella bomba di Apostolo di Gareth Evans che per ora è probabilmente il miglior film originale di Netflix.